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FAKE NEWS E SISTEMA TRASFUSIONALE, PARLA IL DIRETTORE DEL CNS VINCENZO DE ANGELIS

 

La raccolta di sangue e plasma è in risalita, ma lontana dal period
o pre-Covid: «Girano informazioni prive di fondamento che hanno solo il tragico effetto di allontanare i donatori»

 

La raccolta è in fase di risalita, nonostante i numeri siano ancora distanti dal periodo pre-Covid. Tuttavia, a seguito della diffusione dei contagi, sono diverse le carenze segnalate in alcune regioni italiane. Anche in quelle che, tradizionalmente, rappresentavano dei veri e propri punti di riferimento in termini di compensazione. Intendiamoci, il periodo più buio è sicuramente alle spalle, ma tracciare un bilancio positivo al 100% sull’attività nell’anno da poco concluso è un’impresa un po’ complicata.

La campagna vaccinale prosegue: circa il 90% della popolazione ha ricevuto almeno la prima dose, eppure sono tante, troppe, le fake news che si rincorrono ogni giorno e che vanno a colpire anche il sistema trasfusionale e la generosità dei nostri donatori.

È proprio da qui che inizia la chiacchierata con il direttore del Centro Nazionale Sangue, Vincenzo De Angelis. Non facciamo in tempo a finire di pronunciare quella parola che è lui stesso a interromperci e ad affermare con decisione: «Fake news? È un’espressione elegante: secondo me queste sono vere e proprie balle che hanno solo il tragico effetto di allontanare le persone dalla donazione in un momento, invece, in cui c’è un assoluto bisogno di emocomponenti».

 

 

Direttore, eppure è una situazione con cui tutti stiamo facendo i conti

«Non possiamo permetterci di vedere donatori che fanno passi indietro perché in giro circolano simili sciocchezze e come Centro nazionale sangue siamo attivissimi in tal senso (nei giorni scorsi sulle pagine social del CNS è stato pubblicato questo video esplicativo, ndr). Quello a cui ciascuno di noi è chiamato, è evidenziare la mancanza di senso dei messaggi che si cercano di veicolare. Con l’intelligenza e il ragionamento, e con un pizzico di aiuto dalla statistica, si capisce l’assurdità di queste affermazioni: con il 90% circa della popolazione che è stato vaccinato, che cosa comporterebbe dover escludere queste persone dalla donazione? L’esaurimento delle scorte di globuli rossi e plasma, perché, se come qualcuno va dicendo, dovessimo accettare il sangue solo dei non vaccinati, vorrebbe dire che il nostro sistema dovrebbe reggersi su un 10% di potenziali donatori. Fortunatamente non è così, sangue e plasma non sono veicoli di trasmissione né del Covid né di presunti effetti collaterali di un vaccino che sta contribuendo a salvare migliaia di vite umane».

 

Linguaggi aggressivi, offese e altro ancora non risparmiano nemmeno la nostra associazione…

«I donatori ricoprono un ruolo fondamentale per la nostra società e il modo in cui l’Italia ha retto l’urto della pandemia, sotto l’aspetto trasfusionale, ne è stata la conferma. Qui ci troviamo di fronte a individui che non conoscono nulla del sistema sanitario o di altre dinamiche generali, ma che trasmettono questa non conoscenza a livello sistemico. Continuare a fornire informazioni e comunicazioni precise e puntuali come AVIS, CNS e tutti gli altri attori coinvolti in questo ambito stanno facendo, è l’unica strada da percorrere».

 

Con il Ddl Concorrenza si era temuto che il valore etico della donazione potesse essere messo in discussione: lo scenario sociale di cui stiamo parlando potrebbe contribuire a questo rischio?

«Assolutamente no. Il valore etico della donazione non è stato messo in discussione dal Ddl Concorrenza o da altro, e meno che mai da espressioni deliranti come quelle che leggiamo in questo periodo. La nostra collettività ha più volte dimostrato di non essere disposta a negoziare su tematiche socio-assistenziali. Io sono convinto che il principio di gratuità e volontarietà del dono non sia in discussione nel nostro Paese».

 

Passando ai numeri della raccolta: che bilancio possiamo tracciare sul 2021?

«Tenuto conto dell’impatto che il Covid ha provocato sui sistemi trasfusionali di tutto il mondo, non possiamo lamentarci. Tuttavia, non abbiamo registrato quell’incremento che ci saremmo aspettati in situazioni normali. Molte regioni si sono mostrate resilienti di fronte alle emergenze generate dalla pandemia, altre meno, ma certamente si sarebbe potuto fare qualcosa di più».

 

Anche perché, seppur le cose siano andate meglio rispetto al 2020, gli obiettivi non sono stati raggiunti.

«Questo è successo perché i territori che, tradizionalmente, garantivano la compensazione interregionale, in molte situazioni non sono stati in grado di farlo. Basti vedere lo scenario attuale sulla bacheca SISTRA (il Sistema informativo dei servizi trasfusionali, ndr) dove compaiono regioni che fino a un anno fa non avremmo mai pensato di trovare».

 

A cosa lo attribuisce e come si potrebbe intervenire?

«I fattori sono diversi, ma il principale riguarda il personale sanitario. In particolare, quello su cui credevamo di poter contare nelle unità di raccolta associative è stato dirottato alle operazioni della campagna vaccinale: un motivo validissimo, intendiamoci, ma che di riflesso ha portato a lasciare scoperte quelle aree geografiche in cui la donazione è più diffusa attraverso le Udr. La soluzione potrebbe essere quella di dare maggiore responsabilità agli infermieri nel processo di selezione del donatore, un po’ come avviene in altre aree d’Europa».

 

Le notizie più incoraggianti riguardano il plasma, anche se molte regioni faticano a incrementare questo tipo di raccolta.

«Nel 2020 la Commissione Europea ha stanziato 7 milioni di euro ai nostri servizi trasfusionali per intervenire con maggiore efficacia in questo ambito acquistando macchinari specifici. Come amministrazione centrale, per così dire, possiamo fornire dei suggerimenti, ma è ovvio che spetta ai singoli territori organizzare strategie adeguate alle rispettive esigenze. Una di queste potrebbe essere l’apertura pomeridiana anche delle strutture associative: mi viene in mente la Danimarca, ma non è l’unico Paese, dove esistono dei modelli di strutture pubbliche destinate esclusivamente alla raccolta plasma. Noi dobbiamo essere bravi a portarla avanti parallelamente a quella dei globuli rossi».

 

E anche questa di raccolta, i globuli rossi, è distante dai livelli pre-pandemia: è preoccupato?

«Non molto. Il fatto è che in Italia, a dispetto di altre nazioni come i nostri vicini francesi, non sono ancora diffusissime le strategie per il risparmio delle donazioni evitabili (il cosiddetto Patient Blood Managementndr). Tanto per capirci, oggi trasfondiamo 40 unità di globuli rossi ogni 1000 abitanti: è chiaro che se riuscissimo a ridurre le trasfusioni quando non servono e a risparmiare quindi un certo numero di sacche, anziché fare una sorta di “chiamata alle armi” per il sangue potremmo “dirottare” i donatori sul plasma».

 

I contagi, comunque, aumentano e le carenze si fanno sentire: come vive questo momento?

«La mia preoccupazione è data dalla forte diffusività della variante Omicron. Molte persone devono rispettare il regime della quarantena autoescludendosi dai circuiti delle regolari attività socio-lavorative, donazione compresa. Ecco perché c’è carenza: medici o infermieri dei centri trasfusionali possono avere il Covid, ma anche se sono i donatori stessi a essere stati contagiati o ad aver avuto contatti con soggetti positivi, non possono compiere il loro gesto solidale. Questa è l’occasione per far diventare donatore chi non lo è : chiunque non lo abbia fatto finora ed è in buona salute, è bene che si faccia avanti».

 

Prima ha fatto accenno alla carenza di personale sanitario: cosa dobbiamo aspettarci dal 2022?

«Mi auguro in una collaborazione con i vari albi professionali per una revisione dell’impegno delle singole figure nei servizi trasfusionali: farmacisti, biologi e infermieri, infatti, potrebbero integrare le attività, così come i medici specializzandi. Come CNS abbiamo fornito parere favorevole al Ministero sull’ipotesi di impiegarli nelle unità di raccolta, ma perché la cosa diventi generalizzata è necessario un provvedimento in accordo con i ministeri di Università e Salute. Diverso è invece ciò che avviene già oggi negli ospedali universitari, dove questa soluzione è possibile perché rientra nel tirocinio previsto dal corso di studi».